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  • Risparmio e Futuro

La magia degli interessi composti

di Marco lo Conte

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Quando si parla di finanza, ci sono differenze apparentemente poco importanti, ma che sono in grado di produrre risultati molto ma molto diversi tra di loro. Prendiamo il caso della nostra capacità di tenere sotto controllo il nostro denaro, ossia metterlo a frutto o prenderlo in prestito. Per controllare la sostenibilità delle nostre scelte è fondamentale comprendere bene quanto rende un capitale investito o preso in prestito. Non solo quanto, ma anche come. Perché i rendimenti possono essere di due tipi: quelli semplici e quelli composti. I primi si applicano a un capitale, i secondi invece si applicano al capitale e al prodotto di rendimento più capitale realizzato nei periodi precedenti. Quest’ultimo meccanismo non è intuitivo e spesso fatica a conquistare un posto nella mente dei risparmiatori. Con ripercussioni potenzialmente pesanti, ossia trascurando i rischi connessi dall’esserci indebitati a un tasso che si applica non solo al capitale richiesto per acquistare una casa, ad esempio, ma anche a questo capitale lievitato nel tempo. Quando invece di applicarsi alle passività i tassi composti si applicano alle attività, ossia agli investimenti in azioni oppure obbligazioni, spesso si trascura la possibilità di far lievitare i propri risparmi a livelli che un calcolo mentale naturalmente non riesce a realizzare.

Facciamo un esempio: un capitale di 100mila euro investito al tasso semplice del 4% dopo dieci anni è in grado di crescere fino a 180mila euro nel caso in cui il rendimento si applichi anno dopo anno al capitale iniziale; se invece si dovesse utilizzare un tasso composto, sarebbe necessario applicare al capitale iniziale i rendimenti prodotti anno dopo anno, con un risultato finale dell’investimento che salirebbe a 219mila euro. Una differenza di 40mila euro, di sicuro non trascurabile. Discorso analogo se invece di attività in gioco c’è un debito, ossia se invece di far salire un risparmio accantonato, dovesse salire la cifra che dovremmo restituire alla banca che ha finanziato l’acquisto della nostra abitazione, per esempio.

Insomma, il passo con cui un capitale o un debito viene rivalutato per un tasso di interesse composto è molto superiore rispetto all’analoga cifra moltiplicata per un tasso semplice. “L’ottava meraviglia del mondo è l’interesse composto – disse Albert Einstein -: chi lo capisce guadagna, chi non lo coglie lo paga”.

Conoscere i dettagli di come si applica un tasso al capitale è fondamentale per dormire sonni sereni e imparare ad acquisire dimestichezza con la natura del denaro. Non a caso, tra i test che vengono realizzati a livello internazionale per misurare il livello di educazione finanziaria degli individui, quello su rendimenti semplici e composti è in prima linea. Comprendere questa differenza è il primo passo per abbandonare l’idea di usare l’istinto o il “fiuto” per gestire il denaro e instradarsi invece verso un approccio più consapevole dei meccanismi di calcolo matematico che stanno alla base della finanza. Perché - è sempre il caso di sottolinearlo – la finanza e con essa la matematica che ne determina la natura (e quindi tutti i contesti in cui il calcolo si applica) è in realtà controintuitiva, ossia segue un percorso decisionale che è diametralmente opposto a quello che istintivamente saremmo portati a scegliere.

Illuminante a questo proposito è un quiz: lo ha messo a punto dallo psicologo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’Economia 2001, proprio per spiegarci che il nostro cervello è portato a decidere in modo istintivo, facendoci così in errore. La domanda è semplice: un mattone pesa un chilo più mezzo mattone, quanto pesa il mattone? Istintivamente, cioè rispondendo velocemente e senza pensarci troppo, saremmo portati a rispondere un chilo e mezzo (distolti dalla vicinanza delle due parole). In effetti non è così: un mattone è composto da due mezzi mattoni, quindi mezzo mattone corrisponde esattamente a un chilo. La risposta corretta, pertanto, è due chili.

Quando c’è in gioco il denaro è opportuno prendere carta e penna - o semplicemente la calcolatrice del nostro smartphone - per conoscere con chiarezza il risultato finale di un problema finanziario e non sbagliare. L’istinto è utile per tenerci al riparo dai pericoli, ma ci può portare fuori strada quando in gioco c’è il denaro. Accade lo stesso in Borsa: quando gli indici calano e si crea qualcosa di simile a ciò che viene definito “panic selling”, sono molti coloro i quali spaventati da quanto accade sono portati a vendere i propri titoli. Al contrario, quando gli indici salgono e toccano nuovi massimi, i risparmiatori meno avvenuti sono portati ad acquistare ulteriormente, nella speranza di guadagni ancora più corposi. A conti fatti, però, accade il contrario, almeno per chi ha tempo a disposizione e intende far fruttare i propri investimenti azionari nel tempo: se si hanno a disposizione 5, 10, 20 anni di tempo è profittevole fare l’esatto contrario ossia, entro certi livelli, comprare quando i prezzi scendono e vendere quando sono saliti molto. Perché, come ci ricorda la cultura contadina, si guadagna quando si compra a poco e si vende a tanto.

 

Marco lo Conte
Giornalista de Il Sole 24 Ore, responsabile del team di social media editor

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